Sono passati quasi due secoli da quando, nel 1818, un medico inglese (tale James Blundell) eseguì con successo la prima trasfusione di sangue, da braccio a braccio. Il donatore e il paziente ricevente, che erano marito e moglie, erano rimasti vicini per tutto il tempo, nell’attesa che l’operazione terminasse. Oggi invece è possibile raccogliere il sangue in un contenitore in cui è presente un liquido che ne impedisce la coagulazione e così conservarlo e disporre di scorte pronte ad essere utilizzate nei casi di bisogno. Esistono infatti malattie e particolari condizioni in cui il sangue è un vero e proprio farmaco salvavita. Nei casi di malattie del sangue, come tumori, leucemie o emofilia, nei casi di gravi incidenti o di operazioni chirurgiche e trapianti d’organo, il sangue è insostituibile. È anche possibile trasfondere singolarmente le frazioni del sangue (concentrati di globuli rossi, piastrine, plasma) e oggi si tende a privilegiare questa pratica, limitando le trasfusioni di sangue intero ai soli casi in cui è indispensabile. In alcuni casi è possibile pre-depositare il proprio sangue per utilizzarlo in un secondo momento, in previsione di interventi particolarmente impegnativi, ad esempio gli interventi al cuore. Si parla in tal caso di autotrasfusione. Valutata l’idoneità del paziente, il sangue viene prelevato in più sedute, in quantità sufficiente a coprire la quantità di perdite previste durante l’intervento.
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